Mediterraneo

L’ho visto di dietro un muro che si incurvava verso destra giù lungo il declivio. Avevo da poco imboccato una stradella che si separava dalla strada principale, una strada minuscola essa stessa in verità, lasciandomi sulla sinistra l’entrata del cimitero monumentale, l’unico dell’isola, adagiato nello spacco tra due colline e affacciato sul mare proprio verso Ovest.

A Procida, similarmente a quanto accade nelle campagne costiere della Cornovaglia dove il mare può esserti vicino su più lati della tua visuale ma non lo vedi mai a causa delle barriere di cespugli che rinserrano la strada su entrambi i lati fungendo da recinti, o meglio muraglie verdi per le proprietà agricole, o come in Bretagna, dove per la morfologia della costa il mare (benchè onnipresente) non lo vedi da terra se non in rare occasioni o quando ti trovi fisicamente sulla linea costiera, similarmente a questi casi, dicevo, a Procida il mare lo si vede raramente. E dire che è un’isola dal profilo fra i più frastagliati, tutta anse residuo di antiche caldere e punte oblunghe. Ma le straducole sono barricate fra due file ininterrotte di muri, cancellate, facciate consumate dalla salsedine e portoni. E proprio per questo, mentre le si percorrono, il mare esce fuori a sprazzi, di sopra una cancellata, di fra mezzo due muri diroccati. Mai la visuale spazia libera.

Mentre scendevo il lieve declivio di questa stradella, a qualche decina di metri davanti a me la fuga prospettica si chiudeva quindi fra elementi architettonici. Il muro del cimitero a causa della curvatura della strada andava sovrapponendosi alla muraglia di pietre pentagonali di taglio arcaico, quasi etrusco che sta a sostenere un terrapieno sull’altro lato della strada. A contribuire alla chiusura prospettica, una fitta vegetazione aerea chiudeva il cielo sopra alla strada sporgendosi, in maniera spontanea, disordinata, fittissima, di sopra il terrapieno.

Scendevo un po’ goffo, affaticato in una corsetta poco convinta. D’improvviso ecco che si apre uno squarcio. Solo una fessura, fra muro e muro e delimitato in alto dalla boscaglia, una lama verticale di luce, fortissima, caldissima. Procedendo, la prospettiva dilatava la fessura che si faceva una finestra. Di luce. Che mi inonda. E’ una luce di orizzonte marino. Un cielo che ne è pieno, una linea orizzontale, e sotto di essa una miriade di riflessi che ridipartono dalla superficie ballerina del mare calmo disegnando un cono di scintille che è tanto più accecante nel centro quanto sfaccettato e mobile verso i bordi esterni dove la luce pura si fonde con il blu del Mediterraneo.

Ed è questo che sento.
Sento il mar Mediterraneo. Mi stupisco, per la prima volta in alcuni anni, di sentire il Mediterraneo. E non parlo del calore, o della luce che lo circondano. E’ qualcosa di più profondo che evidentemente avevo dimenticato. Negli anni in cui mi lasciavo affascinare prima dal Nord, poi dall’Atlantico, avevo perso il contatto con in nostro mare. Il Mediterraneo che non propriamente ‘navigavo’ ai tempi di Salsedine ma entro il quale esistevo insieme alla mia barchetta intrisa di sale. Il Mediterraneo che contemplavo, nella risacca sempre uguale a se stessa sugli scogli erbosi o al largo nelle maestralate di spume bianche. Il Mediterraneo che si tramutava in un sentimento. Un sentimento che non si può riprodurre in Atlantico o sù nel freddo Nord.

Non avevo realizzato negli ultimi anni quanto fosse forte e definito il senso di questo mare. Un mare che è speciale per me, perchè mi ha formato ma che sono sicuro essere speciale anche di per sè, in senso assoluto rispetto agli altri mari. Un mare antico, in senso antropologico. Un mare in cui la vastità ha l’ampiezza di due o tre giorni di navigazione e in cui l’ignoto ha il sapore di porti arabi calcinati dal sole. Ma dove questa vastità e questo ignoto sono talvolta dilatate all’infinito dal Mito. Che poi è parte della Cultura che sottende a questo ambiente speciale e ne è un po’ l’anima.

Un mare solcato per millenni, sulle stesse rotte, attraverso gli stessi Stretti, dinnanzi agli stessi Capi da barche che dovevano e devono essere capaci di assecondarne le bizze e i capricci, gli improvvisi colpi di vento dove tutto sembra volgere verso la tempesta ma che si risolvono, poco dopo, in bonaccia e cielo sereno.
Il mare di civiltà che da sempre giocano il gioco della diversità ma che oggi, nel panorama di un mondo più vasto possono chiamarsi sorelle, o al massimo cugine.
Un mare, il Mediterraneo, dove anche il tempo ha un suo ritmo tutto particolare. Un suo scorrere lento, non ritmato dalle maree ma scandito dal lento incedere del disco solare in un cielo perennemente sereno.

Ready!.. ?

  
ENG

How many times I’ve heard comments like ‘crossing the Ocean? I cannot even think about that!’ or ‘did you do it in such a little boat? You must be a hero!’? Countless times. 

Yes, this is the typical reaction from people not used to the art of sailing, urban people who lives normal lives, drive cars, go to work, have normal vacations. As a reaction I tend to minimize and, indeed,me myself I never thought, never in my life that sailing for weeks without sight of land was something crazy, something supernatural, or even unnatural. On the contrary since my very first experiences offshore with a small 20feet I always thought that when you are able to spend a whole night sailing with no or little sight of land and you happily survived it in a balance with yourself, then the deal is simply just about repeating the experience for another night, and then for another one and so on. At this point the routine is set. You will easily find yourself sailing for a whole week with no pain. And after that you’ll repeat the operation, putting weeks in a row and you are an Ocean sailor…

But the routine we all are mostly used to is the routine of a land life. And me myself, despite having gone far into feeling like a sea animal several times, if I think about home then I have images of rolling hills and mountains. The landscape of Tuscany, not a seascape at all. And when I am back in this routine called home my brain switches back to urban habits, just like everyone of us.

It was in a period like this, few months ago, at the end of a Winter that saw very little sailing and no offshore sailing at all that was I am going to write about took place. 

I was driving, packed in a traffic not to be considered thick but crowded enough to let you think about how convenient is driving compared to cycling if not walking. It was one of those days on which you rush the whole morning and afternoon and at the end of it you look back and what you did is gathering a packet to the post office, paying a bill and buying something at the local shop. Days like this are so uncommon in a intensely crowded country like Italy.  

I was driving totally absorbed on thinking if driving trough that road was more convenient than choosing the other one in order to skip a bit of traffic or if the cue at the post office would have been short enough now or perhaps the best tactics would be passing by the grocery shop now and going to the post office by lunch time when everybody will be at home eating… crazy stuff like that…

I was driving filling my brain with all this stuff that will leave no sign in my life and suddenly I had this thought. I saw myself back in the days when sailing in the Ocean was what I called ‘life’ and I realized how difficult something like that can look when watched trough the filter of a land life. 

I went further on this imagination exercise and tried to put myself back in the mindset of a person not used to the sea or a weekend sailor. Packed in a car, loosing days driving from nowhere to nowhere. I have to work for a while, years normally, just to buy myself a boat. After placing her in a nice harbour I would have to go back to work for keeping paying the fee for the harbour itself. Then, in the spare time left over by my driving and working and all-the-rest activities of my normal life I would go to sail. Normally few hours every week and just in the good season. At this rate I would spend years to accumulate the long experience necessary just to start thinking about offshore sailing. And of course after those many years, when I would finally start to feel ready for it, I would feel that my first boat is not appropriate for offshore sailing and think about buying a bigger one and therefore postponing the big day of a few years more…

This is what typically happen in the life of the recreational sailor. It is the natural path for reaching the readiness to be an offshore sailor of a well determined person. And it is not an exaggeration. It is the best case if you are not a millionaire with a lot of wisdom on you. If you switch the example to a less determined person, of a person not keen to a big task like that, then you will easily see this person trying to focus on offshore sailing and thinking: ‘crossing the Ocean, that must be so difficult!’…

Vela bianca

  
ITA

Hhhhhhhiiiiiiiiiiiiiiiiii…. hhhhhhhhhhhiiiiiiiiiiiiiiii… silenzio, per un po’. Che poi silenzio sarebbe il rombo del motore senza quel fischio/stridìo incessante, ma… hhhhhhhhhhhhiiiiiiiiiiiiiii, hhhhhhhhhhiiiiiiiiiii… riattacca, quel suono che è come un cavatappi che ti trapana il cervello 24ore su 24. Siamo in trasferimento, in Mediterraneo, e non c’è un filo di vento da quasi 72 ore. Si va a motore quindi e quel ‘hhhhhhiiiiiiii’ è il suono della trasmissione, l’asse dell’elica che passando attraverso lo scafo in questo cavolo di barca non riesce a farlo urbanamente, in silenzio o in un silenzio-meccanico, un suono che abbia del tollerabile, ma stride come se lo scafo lo stesse tornendo, come se dovesse forarlo con il proprio lavoro meccanico giro dopo giro.

E così da oltre due giorni conviviamo con questo suono che è ovunque dentro la barca, nelle cabine di poppa, nel quadrato. Anche in pozzetto. In realtà sono più di due giorni che navighiamo. Siamo infatti partiti dalle Azzorre, 19 giorni fa ma in Atlantico e attraverso lo Stretto di Gibilterra il vento c’era e così il motore lo accendevamo, si, ma solo di tanto in tanto. È la dura vita del trasferimento: ti viene affidata una barca e tocca accettarla così com’è, e la maggior parte delle volte, diciamo quasi sempre non è proprio in forma smagliante. Parti badando al sodo: che l’albero stia al suo posto, che il timone sia solido, che il motore faccia più o meno il suo dovere. E ovviamente che lo scafo sia pressocchè stagno. E che lo rimanga nel tempo. Le avarie che si presenteranno poi, dovute a negligenza di chi ha usato la barca prima di te o a semplice usura non le metti neanche in conto… o ce le metti, sai che ci saranno ma fai finta di non saperlo. Parti e quel che sarà sarà, quel che si rompe si riparerà strada facendo.

Ma non è questo di cui volevo scrivere. Vorrei scrivere del mio amico Stefano che durante il mio ultimo trasferimento (sì, lo stesso dell’ “hhhhhiiiiiiiii”) è venuto da Plymouth a darmi man forte come equipaggio. Stefano è un derivista o meglio, un dinghy sailor. Ci siamo conosciuti a Plymouth dove lui vive tuttora. La sua casa è a cento metri dai ‘Narrows’, un’ansa del fiume Tamar dove le correnti tidali superano facilmente i 5nodi. Proprio vicino ai Narrows nel dopo lavoro Stefano spinge in acqua il carrellino in alluminio del Wayfarer che possiede in coproprietà con un amico, noncurante dell’acqua gelida che per qualche secondo gli attanaglia le caviglie come le chele di un granchio ostinato e crudele. Il Wayfarer è un elegante derivone in legno di qualche decennio fa che lui stesso ha riportato allo splendore che gli spetta, smalti e coppale.

Uno spintone al Wayfarer, un balzo attraverso il quale Stefano si porta in pozzetto, stick in mano e via, le vele bianche nel vento. Quel vento a volte opaco di pioggerella fine, a volte gelido di aria tersa e luminosissima, a volte potente, quasi solido nel suo carico di umidità pesante spinta dai 25nodi di Westerly. Questa è la vela di Stefano, semplice, gloriosa. Pura. A volte sono allenamenti con il suo compagno, a volte scampagnate nel Sound (il golfo attraverso cui Plymouth è unito alla Manica) con la fidanzata, a volte una regatina di circolo. Fra il verde vivo delle colline della Cornovaglia, sovrastato dal grigio luminoso del cielo e solcando il verde limaccioso delle gelide acque tidali, il Wayfarer trova la sua strada trovando il suo equilibrio tra il vento e le correnti di marea, sempre rientrando allo stesso scivolo poche decine di metri oltre il quale, fatalmente, vi è il pub dove Stefano, altrettanto fatalmente finirà a farsi qualche pinta e a piantarsi bene nella mente, come puntine da disegno, quelle immagini di paesaggi marittimi gloriosi di cui solo i mari del Nord sanno essere prodighi. Ma sono paesaggi che lì per lì, sul momento, mentre li osservi, sei sempre troppo intirizzito, la mente irretita dal freddo per poterli fare tuoi profondamente. E allora viene il fine giornata al pub, necessario per lo spirito ancor prima che fisiologicamente. Si, a differenza di quanto avviene per un paesaggio Mediterraneo che si fa osservare per ore di godimento sensuale mentre te ne stai in costume disteso in coperta, un panorama del Nord lo si osserva brevemente, di traverso al colletto della cerata tirato su, pochi attimi, finchè il freddo è troppo, la pioggia ti ha nauseato e devi girarti altrove o ripararti dietro lo spray-hood.

Stefano quest’anno ha deciso che voleva provare l’Oceano. Ha preso un volo per Horta, nelle Azzorre e si è unito al mio equipaggio pronto a salpare per la Spagna, 1100miglia di mare. Turni di guardia, cucinare, ridurre le vele. Stefano si dimostra subito all’altezza. Precisissimo all’eccesso nella regolaIone delle vele. D’altronde fa deriva Stefano e na sa di regolazioni. Ben presto gli lascio briglia sciolta nel regolare le vele mentre sto dormendo, un privilegio che non sempre mi posso concedere. Cala il vento e arriva il motore, inevitabile nel trasferimento. A tratti il vento riprende ma appena molla un po’, se la media scende e la barca comincia a rollare senza potenza nelle vele io giro brutalmente la chiave, rompo il silenzio che poi silenzio non è mai, quello del mare e del vento e rilancio la barca ai 5nodi che mi sono prefissato come media. Poi arriva un venticello lieve, insufficiente da solo a spingere questa barca pesante a velocità dignitosa e fra l’altro neanche l’angolo è buono, ma vruummh, una bottarella di motore e ci ritroviamo in una sacrilega andatura mista vela/motore, una schifezza da motorsailer che in realtà schifezza non è perchè con usura minima del motore lasciato a giri bassi si fila a bei sei nodi che per questa barca non sono pochi.

Stefano è inorridito da questa condotta blasfema. Per lui la vela è il bianco candido del dacron, la sensazione unica delle scotte strinte tra le mani, lo sciaguattìo dell’acqua sullo scafo, il fischiare del vento nelle sartie. Non questo rozzo incedere con qualsiasi mezzo. Ci mette qualche giorno Stefano ad identificarlo ma alla fine questa discordanza tra quello che si era immaginato e l’effettiva realtà dei trasferimento si manifesta come un malessere. Me ne parla mentre a sera facciamo aperitivo in pozzetto e io sorrido. Resto nel mio ruolo, gli dico che sì, i trasferimenti sono così non ci si può fare nulla e sì, la vera vela è quella che fa lui, su in Inghilterra. In barca, da skipper si impara a convivere con la sentenza, con il dato di fatto. È una conseguenza di una condotta che vede le proprie scelte come unica opzione e le conseguenze da esse generate come unico scenario possibile nella realtà. È un’autodifesa e una necessità pratica.

Poi il giorno dopo, durante un turno pomeridiano ci ripenso. Mi ha piantato un tarlo nella testa Stefano. E sì, devo ammetterlo a me stesso: forse lo avevo dimenticato. Un po’ certo devo averne stratificato la consapevolezza sotto due anni di routine di barche portate da A a B senza troppa poesia. Ma io questa cosa la so bene, benissimo per averla vissuta sulla mia pelle, anni fa quando la vela era un’esperienza diversa, più piccola sì, più casareccia, certo, ma anche più intima, certamente più intensa nel modo in cui la vivevo. Con la sua osservazione Stefano mi ha riportato lucidamente alla mente la bellezza della vela vera, la vera pura. L’ebbrezza di andare solo e davvero con il vento. Il privilegio di vivere fuori dal tempo, dai calendari, dalle ottuse abitudini e dalle necessità della vita terrestre. È un punto di vista ingenuo e privilegiatissimo quello di cui Stefano gode ancora.

…avrò occasione di riparlarne. Intanto grazie, Stefano per avermi ricordato il valore della vera vela!